COLONIA DIGNIDAD – LA DIGNITA’ UMANA PERDUTA
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Florian Gallenberg, ispirandosi a fatti reali, storici, descrive con questo film dall’aspetto multiforme ciò che accadeva in un luogo, sperduto nella foresta a trecento chilometri da Santiago del Cile, fondato da un pazzoide, lubrico affarista che trattava armi e gas nervini: Paul Schafer che con la apparente motivazione di creare una missione nella quale intendeva creare predicatori laici rese praticamente prigionieri e succubi della sue depravate manie tutti gli occupanti della fattoria che, di per se, era organizzata alla stregua di un borgo autosufficiente.
In effetti, gli abitanti, la cui mente veniva giornalmente coartata dal terribile Paul, erano soggetti ad una vera e propria dittatura le cui assurde e spietate regole erano dettate solo dalla sua pazza cattiveria; la storia della pseudo fattoria ha inizio nel 1961, quando ad essa venne assegnato il nome fascinoso di “ Colonia Dignidad “ e fino al 1973, anno in cui il generale Augusto Pinochet assunse il potere in Cile dopo un terribile colpo di stato, effettivamente poteva classificarsi come una delle più grandi fattorie della nazione.
Dal momento in cui Pinochet sale al potere, grazie ai legami che lo schifoso Schafer intrattenuti con i servizi segreti del regime, la fattoria venne di fatto trasformata in campo di tortura per i prigionieri politici che lottavano contro il dittatore e quando gli organi di informazione di tutto il mondo iniziarono a diffondere la notizia dell’esistenza di questo orribile luogo, nessuno prese alcuna iniziativa nei confronti della fattoria e della sua gestione: il mondo espresse indignazione ma nulla accadde al mercante di armi, gas e, forse anche di uranio arricchito; lui continuò imperterrito nelle sue violenze tra le quali rientravano anche abusi sessuali sui bambini ospitati nell’ rribile luogo di tortura.
E’ proprio qui, durante i moti che seguirono la presa del potere da parte del dittatore cileno appoggiato dal governo americano che si dipana la storia triste ed avventurosa: narra di due giovani fidanzati, lui. Daniel, disegnatore di manifesti e lei, Lena, hostess di una linea aerea, entrambi di origini tedesca: lui viene arrestato sotto gli occhi della ragazza, trasferito nella “ Colonia Dignidad “ per esservi torturato e poi preso in consegna dallo schifoso Schaefer.
Lena non si arrende all’arresto e nel tentativo di aiutare Daniel a fuggire dalla terribile prigioni si associa a quella che era ancora una pseudo missione di formazione di persone dedite ad una forma di religione alquanto “ strana “ che nella colonia aveva sede.
Innumerevoli ed inenarrabili le vicende subite dai due: Daniel, impersonato da un bravissimo ed efficace Daniel Bruhl interpreta la sua parte con una certa dose di professionalità estemporanea; lei, la donna che corre in soccorso del suo uomo, una efficacissima ed altamente sensibile Emma Watson, è in grado di imporre un ritmo anche incalzante ad una storia densa di assoluta tristezza, una tristezza della quale è intriso l’intero film che, come pellicola, rivela una serie di pregi quali una fotografia in grado di evidenziare mondi e modi visivamente diversi attraverso l’utilizzo di tecniche che il bravo Koljia Brandt non ha esitato ad utilizzare per descrivere scene a volte dal look sfuocato ( quelle non ambientate nella colonia ) ed altre volte caratterizzate da una limpidezza dell’immagine ( quelle all’interno della colonia ) che da sole sanno descrivere i personaggi e le loro vicissitudini creando contemporaneamente un senso di ansia continua ed una ossessionante claustrofobia.
Discreto merito va attribuito alle musiche, in grado di sottolineare lo svolgimento di quella che, in fondo, è la descrizione di una sofferta storia d’amore iniziata quasi in maniera goliardica e poi drammaticamente evolutasi: tre celebri canzoni che portano perfettamente indietro nel tempo, agli anni ’70, l’attonito ed a volte atterrito spettatore che, se non ha l’età di coloro che hanno vissuto quegli anni, non potrà riconoscere l’attraente bellezza di pezzi quali “ Try “ di Janis Joplin, “ Samba Pa Ti “ del chitarrista e compositore americano Carlos Augusto Alves Santana, di “ Ain’t No Sunshine “ di Bill Withers, tutte arrangiate allo scopo da Andrè Dziezuch, che insieme formano lo sfondo musicale, non il leit motiv, attraverso una colonna sonora che accompagna spesso lo spettatore all’interno dei variabili stati d’animo che caratterizzano la pellicola.