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SNOWDEN di Oliver Stone: dalla parte della verità?

SNOWDEN di Oliver Stone: dalla parte della verità?

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Oliver Stone alla festa del cinema

Oliver Stone alla Festa del Cinema

Con “Snowden” Oliver Stone rivisita un fatto di cronaca recente. La cui risonanza, come quella di ogni scandalo nato e consumato nell’epoca digitale, tanto è stata amplificata nei giorni a ridosso dell’evento quanto oggi appare sbiadita. Persino lontana anni luce. D’altronde, questo è il fascino inquietante dei nostri tempi, in cui un evento, nel giro di poche ore e qualche click, passa dal globale all’oblio. Ben vengano dunque operazioni di riscoperta del passato, anche assai recente.

“Snowden” è una di queste: racconta la vicenda dell’omonimo protagonista, dall’arruolamento nell’esercito americano all’hotel-rifugio di Hong Kong dal quale, tre anni fa, egli – complici “The Guardian” e le riprese di un documentario poi premiato con l’Oscar, “Citizenfour” di Laura Poitras – rivelò al mondo la sistematica violazione della privacy da parte dell’intelligence informatica. In mezzo e in ordine cronologico, interrotti qua e là da un “oggi” che coincide con il non-luogo della stanza d’albergo, i frammenti del passato di Snowden, informatico giovane e brillante che, nel suo percorso professionale, da Ginevra, al Giappone, alle Hawaii, capisce di aver messo il proprio genio al servizio del male.

La dimensione transnazionale, fatta di reti, bit, connessioni e “armi intelligenti” prima che di persone in carne ed ossa, si insinua così in quella personale del protagonista. Fin dentro la sua stanza da letto, durante un rapporto sessuale con buone probabilità spiato attraverso la webcam del suo computer: è questo uno dei pochi momenti perturbanti di un film che scorre senza sussulti oltre a quelli (consueti) riservati da una (presunta) “contro-informazione” ai (molti) “poco-informati”. Sussulti che sono ad ogni buon conto prerogativa del documentario ben fatto. E la tentazione di generare (anche o prima di tutto) un documentario anima Stone e si conferma nell’approccio più didattico che autoriale (con l’inevitabile ricorso ad alcune schermate di spiegazione grafica) e nella scelta di far comparire nel finale il vero informatico.

Sotto il profilo strettamente filmico, invece, “Snowden” riesce piatto e fastidiosamente agiografico: al di là di qualsiasi valutazione sull’effettiva genesi e portata del suo operato, è impossibile non notare come Snowden sia stato dipinto da Stone davvero come un cavaliere senza macchia alcuna, ché le uniche e flebili incertezze nella sua cavalcata verso la libertà altro non fanno che esaltarne la statura e fortificarne la marcia. Le misere debolezze del protagonista sono infatti esclusivamente esterne: l’epilessia, lo stress da eccessivo carico di lavoro e il piccolo cedimento “social” della fedelissima (ed eccessivamente provocante) compagna (cedimento peraltro provvidenziale, se è vero che lo svelamento delle sue conseguenze aprirà definitivamente gli occhi al talentuoso informatico). Gli stessi potenziali oppositori del genietto ribelle, inoltre, sembrano tutti tifare per il suo planetario successo; il potere e i suoi cattivi, invece, stanno al di là, indeterminati, intangibili e intoccati, nella nebulosa (di comodo) che talvolta appare in video, minacciosa ma asettica, e quindi sterile.

Sa di stucchevole, celebrativo e monocorde, il film di Stone: il grande regista s’identifica troppo con il suo protagonista e lo rende una cosa unica con la sua battaglia, si concentra – oltre tutto in maniera parziale e tendenziosa – su un’unica faccia della medaglia perdendo di vista qualsiasi sfumatura. Con ciò depotenziando il proprio personaggio, che risulta fumettistico e monodimensionale.

Appare un’occasione persa su più fronti: indagare l’oscuro di un personaggio nato nell’ombra e finito in poche ore sugli schermi del mondo intero; creare una dialettica pur minima tra le opposte urgenze, dell’intelligence, del singolo smascheratore ma anche dei milioni di utenti cui una battaglia del genere può interessare poco; lasciare aperti interrogativi esistenziali e globali insieme, sul giusto e sul conveniente, sull’arrogarsi una missione salvifica e su una realtà la cui inestricabile complessità sfugge necessariamente anche alle menti eccelse.

Se “Snowden” doveva essere al servizio della verità, alla verità finisce col rendere un cattivo servizio.

 

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