In concorso a Venezia SUSPIRIA di Luca Guadagnino
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In concorso a Venezia SUSPIRIA di Luca Guadagnino.
Presentato in concorso alla 75. Mostra del cinema di Venezia il remake del film di Dario Argento del 1977 (guarda caso tornato a nuovo splendore nel restauro 4K dell’anno scorso, suo quarantennale).
Due film connessi dal titolo, dal soggetto e da Jessica Harper, ma assai distanti narrativamente ed esteticamente.
La vicenda è quella di Susy, talentuosa ballerina americana in trasferta tedesca, che conquista subito il posto di leader nella prestigiosa accademia di danza di Madame Blanc. La permanenza in quell’inquietante collegio le rivelerà la vera identità di Blanc&colleghe e… di lei stessa.
Questo, per lo meno, nel film di Guadagnino, che ribalta il finale di Argento.
Il quale aveva creato un horror sostanzialmente classico, con shock iniziale e successivi e una emersione progressiva degli indizi volta allo svelamento del mistero e alla sconfitta del male.
Guadagnino, come aveva già fatto per l’altro suo remake (quello de “La piscina”), scombina le carte approfondendo le psicologie e le ambientazioni e capovolgendo la conclusione.
Ad essere stravolti, però, non sono soltanto l’identità e il destino della protagonista, ma l’impianto stesso del film. Di più, il genere di riferimento: il film di Guadagnino non può essere considerato un horror.
Inserire un film d’autore in una precisa categoria è sempre una forzatura, ma qui a mancare, al di là dell’aderenza al genere, è innanzitutto quella omogeneità strutturale che fa percepire il necessario sguardo unitario sulla narrazione. In questo “Suspiria” la raffinatezza visiva e sonora (soundtrack del leader dei Radiohead), un’accesa immaginazione e l’alternanza dei registri non generano purtroppo meraviglia e coinvolgimento, ma l’esatto opposto.
Il film sembra infatti cominciare bene, con lo spostamento dell’azione nella Berlino del Muro e il dettagliato ritratto d’epoca. “Sembra”, appunto, perché quel che altrove (in un altro film, in un altro genere) poteva essere un valore aggiunto qui finisce con l’appesantire il racconto, azzerare la suspense e confondere lo spettatore. Che vede deluse le proprie attese. Un horror, paradossalmente, esige la semplicità e lo scrupoloso rispetto di regole testate, sedimentate e imprescindibili, pretende insomma quell’umile disciplina narrativa da sempre estranea all’eccentrico modus operandi di Guadagnino. E quindi, se in Argento la prima uccisione avviene a pochi minuti dall’inizio, nel film visto ieri a Venezia bisogna attendere tre quarti d’ora. Non solo: lo stregonesco consesso è limpidamente svelato già nella prima parte e, alla vicenda della giovane protagonista, Guadagnino affianca e sovrappone quella dell’anziano psichiatra con tutto il corredo urbano e storico di quella grigia Berlino. Ma non basta: a questo racconto già di suo slabbrato, mal cadenzato e orientato in molteplici e contraddittorie direzioni, certo non giovano modalità di ripresa, montaggio e illuminazione estranei a qualsiasi film con ambizioni horror. Ciliegina sulla torta, virtuosismi registici fini a se stessi come i fastidiosi sogni-flash di Susy, il piano sequenza nella stanza delle streghe (con le voci della votazione in sottofondo a collocare il flashback narrativo dentro un ardito e stucchevole secondo piano esclusivamente sonoro) o il sabba-pop conclusivo, interessante come performance ma nefasto a livello filmico.
Ieri in sala, alla prima stampa mattutina delle otto e trenta, pochi applausi tiepidi e qualche fischio. Alla proiezione serale con delegazione e pubblico, invece, come quasi sempre accade, unanime consenso.
Consenso, presumo, prima di tutto per l’autore e il suo mondo. Che – mi sia concesso – è troppo sfaccettato, originale e profondo per le ruvide, semplicistiche e stringenti logiche dell’horror. Guadagnino dà il meglio di sé davanti a un caminetto crepitante che ricorda l’estate fuggita, non certo tra le fiamme infernali di riti mostruosi.