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“Sulla mia pelle”: la solitudine davanti alla morte. Il dibattito alla Cineteca di Bologna

“Sulla mia pelle”: la solitudine davanti alla morte. Il dibattito alla Cineteca di Bologna

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“Sulla mia Pelle” Alessandro Borghi #Venezia75

 “Sulla mia pelle” con Alessio Cremonini e Jasmine Trinca, presentazione e dibattito del film presso la Cineteca nazionale di Bologna.
Una viva e stimolante conversazione tra il regista romano e l’attrice, vincitrice dell’ultimo David di Donatello, e il pubblico in sala al termine della proiezione del film. Moderata il presidente Gian Luca Farinelli.

“Sulla mia pelle”: Trinca, Cremonini, Farinelli

Finito il film, le luci in sala si accendono. I due ospiti, accompagnati da Farinelli, si siedono sotto lo schermo e Jasmine Trinca osserva attenta il pubblico in sala. Incrocia gli sguardi di molti, probabilmente curiosa di vedere le reazioni. Poi la prima domanda.

Farinelli: Quando hai pensato che questa storia potesse diventare un film?
Cremonini: Quando ho visto le foto di Cucchi, la prima volta dopo l’autopsia, mi avevano così colpito che mi sono rimaste dentro. Mi sembrava quasi una tragedia shakespeariana, dove il destino, che sono gli uomini, si accaniscono contro una persona che è senza vie di scampo. Questo è rimasto per anni. Poi un giorno alla radio ho sentito Ilaria Cucchi e l’avvocato Anselmo che parlavano del caso a una trasmissione. Credevo che qualcuno avesse già fatto il film su Stefano, per questo sono rimasto sorpreso quando ho scoperto che non era così. Da lì è nata l’idea. È il film che avrei voluto vedere al cinema, mi sono fatto da autoregista per diventare spettatore.

Farinelli: Qual è stato il lavoro di documentazione al quale vi siete attenuti per la ricostruzione dei fatti?
Cremonini: Io e la co-sceneggiatrice, Lisa Nur Sultan, ci siamo affidati a dieci mila pagine di verbali e di atti processuali e lo abbiamo fatto cercando di svuotare la testa da ogni pregiudizio, da ogni notizia e soprattutto da ogni idea che inevitabilmente ci eravamo fatti in questi anni. Proprio grazie a questo siamo riusciti a capire dove poteva essere la testimonianza più utile. Eravamo dei piccoli archeologi in mezzo a una pila di fogli alta due metri. È un film che definisco “francescano”, ovvero: io sono un uomo di sinistra e molto credente, non ultras. A ragion di ciò, abbiamo voluto, sia dal punto di vista registico, oltre che quello narrativo, fare dei passi indietro affinché lo spettatore possa farsi un’opinione personale. In qualche modo speravamo di far trasparire il meno possibile la “confezione” del cinema. Alla fine di tutto i veri punti interrogativi sono certamente capire chi è stato a uccidere Stefano e in che modo, ma soprattutto com’è stato possibile che le centoquaranta persone che lo hanno visto in quei sette giorni non si sono accorte di niente o, magari, non hanno voluto capire.

Farinelli: Perché scegliere, come attore che avrebbe dovuto interpretare Stefano Cucchi, uno così diverso fisicamente da lui, quale è Alessandro Borghi?
Cremonini: Lo avevo visto in Non essere cattivo e mi aveva stupito per la sua interpretazione così spontanea, così talentuosa. Ma soprattutto è stato scelto proprio per questo, per queste diversità fisiche. Ho creduto fin da subito che la troppa somiglianza che poteva avere un qualsiasi altro attore con Stefano, in realtà non lo avrebbe aiutato nel calarsi nei suoi panni, anzi. Alessandro ha lavorato sul peso e sulla voce. E direi che i risultati si sono visti perché, sul set, lui c’è arrivato come Stefano e non più come Alessandro.

Dal pubblico: Qual è il motivo che ha portato alla scelta di Max Tortora nel ruolo di Giovanni Cucchi (padre di Stefano), visto che il grande pubblico lo conosce principalmente per i suoi ruoli comici?
Cremonini: In realtà Tortora viene da un’ottima interpretazione ne La terra dell’abbastanza, ma la risposta è che semplicemente è stato il miglior provino, era impossibile non puntare su di lui. In più è stato scelto anche per la sua altezza perché anche Alessandro Borghi è molto alto e dovevamo riprodurre l’abbraccio che padre e figlio Cucchi hanno avuto in tribunale che, dalle testimonianze, ci è stato raccontato come tanto breve quanto intenso. Infine, credo che il ruolo dell’attore comico sia molto più difficile del ruolo dell’attore “tragico”, è sempre più complicato far ridere che far piangere. Quindi chi sa far ridere sa anche far piangere, Max ne è un esempio.

Farinelli: Mi rivolgo a Jasmine. Questo film come ha cambiato il tuo rapporto con questa storia?
Trinca: Nel film si scoprono anche cose che stanno all’ombra di ciò che riguarda il processo, i fatti e la morte di Stefano e sono cose che a volte mi hanno sorpreso, a volte commosso, a  volte sconvolto. Prima di tutto una lunga serie di irresponsabilità: uno può essere quello delle condizioni delle carceri. Normalmente le valutiamo come degli abomini quali, per l’appunto, sono come se fosse la normalità. Ma questo deve fare paura a tutti quanti proprio perché probabilmente quella delle carceri non sarà la nostra strada. Dobbiamo sempre ricordarci che siamo umanità, ed è un punto fondamentale del film. A Stefano viene negato un giusto processo, ma soprattutto uno sguardo sull’essere umano. Fallibile, certo, ma pur sempre un essere umano. Un altro punto è il grande atto di generosità della sorella Ilaria che decide di sospendere uno dei lutti più grandi della vita di ognuno di noi per cercare la verità. È una sorta di risarcimento che si sente di dover pagare nei confronti del fratello che per tutti e 7 i giorni non è riuscito ad avere nessun tipo di contatto con i propri familiari. Si è sentito solo e ha pensato di meritarselo per i suoi errori. Questo è il cuore di tutto: l’idea di essere soli nella propria fallibilità, che io ho trovato straziante, è il vero punto irrisolto per tutta la famiglia. Non poter dire “noi ci siamo”, “noi ti amiamo”, qualsiasi cosa sia.

Farinelli: Al regista vorrei chiedere se sono state usate licenze poetiche?
Cremonini: Intanto vorrei ricordare che una settimana dopo la morte di Stefano sono cambiate le regole d’accesso al reparto di medicina protetta perché sono state definite troppo ferree e inutili. Detto ciò, non riuscivo a pensare a una qualsiasi persona che muore da sola su un letto di ospedale senza poter parlare sinceramente con qualcuno. Questa è l’unica esigenza emotiva che ho avuto, il non lasciarlo solo nelle ultime ore della sua vita. Per questo abbiamo usato l’espediente di un qualsiasi Mario con cui Stefano si relaziona a cuore aperto e racconta i suoi dolori, i suoi incubi, le sue paure. Nessuno potrà mai dirci se questo Mario sia esistito davvero, ma abbiamo saputo che medicina protetta in quei giorni era molto affollata, quindi ci è piaciuto pensarlo così nell’ultimo atto della sua vita.

Francesco Policicchio: Cerco una mano confortatrice a cui aggrapparmi, perché il sentimento principale che ho provato per tutto il film e che provo tutt’ora è un forte senso di rabbia. Considerato che voi avete sopportato mesi di lavoro su queste vicende, la domanda è: cosa ci farà dormire stanotte? Cosa possiamo fare noi alla fine di questo film?
Trinca: Qualche tempo fa, stavo cercando un testo da leggere per un’occasione. Alla fine ho trovato uno scritto di Simonetta Spinelli dal titolo Che cos’è la felicità?. Brutalmente riassunto: “la mia felicità è la mia rabbia”. Ecco, credo che dobbiamo ripartire da questa rabbia. Sto notando, in questi giorni di presentazione nelle sale, che i sentimenti di tutte le persone che stiamo incontrando sono molto simili e sembrano un segnale, come se tutti noi fossimo da tempo in attesa di un momento collettivo dove incanalare questa rabbia, questa indignazione e dove accendere una speranza per ripartire. Questo momento collettivo è la risposta alla rabbia che si prova adesso ma che si sta già trasformando in forza, che non è distruttiva, anzi tutt’altro.

La perdita della responsabilità individuale, che è una delle grandi questioni del nostro presente, lo è anche in questo film. Un ragazzo vittima di un destino troppo crudele ma soprattutto vittima di centoquaranta persone che non hanno voluto aprire gli occhi. Una madre, un padre e una sorella che non hanno potuto salutare il loro Stefano e la grande rabbia che diventa fonte inesauribile di ricerca di verità e giustizia.
Francesco Policicchio