“#IoSonoqui” di Eric Lartigau: il viaggio virtuale e reale in cerca della donna perfetta…
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“#IoSonoqui” di Eric Lartigau: il viaggio virtuale e reale in cerca della donna perfetta…
di Eugenio Fatigante
“#Iosonoqui” è un film sulla ricerca. Sulla ricerca della donna ideale da parte di un uomo. Ma anche su quella, più complessa, che compiamo dentro noi stessi. Partendo da uno spunto accattivante: l’impaccio e lo spaesamento della generazione “di mezzo”, quella dei cinquantenni, davanti alle nuove tecnologie e alle connesse forme moderne di comunicazione interpersonale. Una pellicola in fondo astuta sul piano commerciale, ma non per questo meno godibile e riuscita. Un film, insomma, che riconcilia con la commedia sociale, ora anche digitale visto che si avventura (nello stile avviato da “Perfetti sconosciuti”) negli infiniti spazi e spunti aperti dai nuovi mezzi. La storia è ambientata all’inizio in Francia, ma è nettamente divisa in due parti che, in un ponte ideale, uniscono il Paese d’Oltralpe alla Corea del Sud, con evidenti richiami a “The Terminal”, il film di Spielberg.
Eric Lartigau, regista di altre commedie felici (soprattutto “La famiglia Bélier”), qui racconta la storia di Stephane, bravo chef in un ristorante a gestione familiare nella zona basca del sud-ovest francese: la sua è una vita tranquilla, forse troppo, fra una ex moglie con cui va d’accordo e due figli che solo ora, alla soglia della mezza età, scopre di conoscere troppo poco. L’unica cosa che lo fa sentire davvero ancora vitale è Soo, una giovane donna coreana conosciuta su Instagram. La fitta corrispondenza avviata rende Stephane distratto, sempre tra le nuvole, lo fa sembrare più presente nella sua vita virtuale che in quella reale. Ma lo spinge anche a quei cambiamenti (nelle reazioni, nel look, perfino nell’arredamento del locale) inequivocabilmente notati da chi gli vive attorno. Dopo un incidente d’auto dovuto proprio alla distrazione per i messaggi, decide di rompere gli indugi (e gli schemi) e di partire per andarla a conoscere, lasciando tutti esterrefatti con l’annuncio di voler andare a vedere “la fioritura dei ciliegi a Seul”. Sarà l’avvio di una sarabanda, incredibile e divertente, di disavventure, vissute per lunghi giorni nello scalo aeroportuale coreano, che lo portano a diventare a sua volta un fenomeno social. Fino alla scena-clou basata sul classico schema del “cinema nel cinema”, quando Stephane si immerge nella visione di un film nella sala cinematografica dell’aeroporto: è qui che si innesca il fenomeno della proiezione/identificazione e il personaggio inizia a vedere tutto più chiaramente.
Una storia di sentimenti, di buoni sentimenti, forse più complessi da vivere appunto nell’era digitale. Il regista ha però il pregio di evitare troppe distrazioni e di mantenere i riflettori sul personaggio principale (abilmente interpretato da Alain Chabat, a sua volta anche regista) che, conscio della sua dose di immaturità, vive ogni situazione con uno sguardo puro, anche se colmo di una vita già densa, e si fa scivolare tutto addosso con una svagatezza quasi fanciullesca. E, lontano da casa, compie un viaggio – più ideale che reale – che lo porterà a ridare le giuste dimensioni alle relazioni sociali e a riscoprire i valori fondamentali.
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