Esce oggi “Palazzina LAF” di Michele Riondino, sanguigna opera prima di denuncia
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Anni Novanta, Puglia. Con una birra in mano dentro il bar di fronte alla chiesa, Caterino Lamanna (Michele Riondino) partecipa a distanza al funerale di un suo collega quarantaseienne, rozzamente criticando l’incapacità di quest’ultimo che lo ha portato alla morte e disprezzando l’operato del sindacato. Siamo nei pressi dell’ILVA di Taranto e quella è l’ennesima morte sul lavoro.
Nel bar entra il capo del personale Giancarlo Basile (Elio Germano) e, nonostante i due in quell’occasione si scambino giusto un cenno di saluto, scatta subito una nefasta sintonia. Quella che porterà Caterino ad accettare di diventare spia dei dirigenti a danno di lavoratori e sindacato, infiltrato all’interno della Palazzina LAF (“Laminatoio A Freddo”), dantesco girone in cui vengono progressivamente confinati i colletti bianchi scomodi, caduti sotto i colpi della “riqualificazione aziendale” e ostinati a non perdere il lavoro né ad accettare il declassamento al ruolo di operai.
Caterino si confronterà dunque con quella varia umanità alienata, la loro ottusa stasi e gli slanci vitali per sovvertire l’ordine imposto portandolo all’attenzione delle alte sfere. Fino all’intervento dello Stato e al conseguente processo…
Riondino esordisce nella regia con tutto il furore e la perizia che contraddistinguono la sua arte recitativa. La storia è scomoda e ancor più il suo personaggio, unico nel panorama del recente cinema italiano, un “cafone” superficiale e vanitoso, aggrappato al benessere del momento, fatto di sigarette, misere furbizie, amicizie di comodo e dell’amore dell’unica ragazza (italo-albanese) cristallina, sincera e disposta ad assecondarlo in tutto (la bravissima Eva Cela).
Il patto col demonio era dietro l’angolo e assume le forme di un’insperata (e scassata) Panda aziendale e una collocazione all’interno della LAF. Scrupoli di coscienza per il novello Giuda? Pochi e solo all’interno di incubi notturni. Tant’è che al processo, lui, arriva tronfio e quanto mai ottuso.
Il film affronta un tema spinoso e inedito, molto sentito dal regista. Che dichiara: «Tutti i fatti narrati nel film sono frutto di interviste fatte a ex lavoratori ILVA ed ex confinati, e i passaggi finali sono dettagliatamente presi dalle carte processuali che hanno determinato la condanna degli imputati e il risarcimento delle vittime. Questo film vuole essere una sorta di affresco sociale, non vuole raccontare quello che succede oggi a Taranto, ma quello che oggi viviamo è sicuramente frutto del disinteresse di chi nel 1995 ha sacrificato un’intera città sull’altare del proprio capitale». “Palazzina LAF” è dunque pienamente apprezzabile per la potenza narrativa che deriva da una tale partecipazione e, soprattutto, per la freschezza tipica di un autore all’opera prima che non si spaventa di osare e rischiare, creando montaggi audiovisivi arditi, deliri onirici, connessioni spiazzanti e capovolgimenti forti; difetta però – assieme al protagonista – sotto il profilo del crescendo emozionale e dello sviluppo drammaturgico. Che lascia sospesi, tra una possibile svolta radicale in Caterino (redenzione o ulteriore discesa agl’inferi?) e uno squarcio sul “macro-problema” dell’ILVA, “macro” rispetto al “micro-mondo” della LAF e del mobbing interno (il primo caso in Italia): l’indiscriminato e perpetuato inquinamento di un’intera, vasta area pugliese, nel film solo accennato – con la pecora stramazzata al suolo, i discorsi dello zio, la tosse, ben tardiva, del protagonista.
Ecco, “Palazzina LAF” rimane un importante film di denuncia e, insieme, una buona prova registica e una performance attoriale magistrale; lascia tuttavia un po’ l’amaro in bocca per l’evoluzione incompleta dei personaggi, in primis Caterino e Basile, altra interpretazione esemplare di Elio Germano, qui efficacemente sotto traccia e sfuggente come un piccolo, viscido demonio…
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