Una chiacchierata con Cecilia Miniucchi
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È italiana ma risiede in America. Le qualità non mancano di certo. La regista Cecilia Miniucchi è alle prese sul set del suo ultimo film, No place like Rome, una storia d’amore in cui si avvale della collaborazione di grandi attori come l’australiana Radha Mitchell, l’americano Stphen Dorff e l’italiana Cristiana Capotondi. L’opera verrà coprodotta da Italia e Stati Uniti. Le riprese dureranno cinque settimane e saranno effettuate a cavallo fra le bellezze storiche della capitale e l’Umbria, un’altra terra ricca di paesaggi suggestivi che si adatta perfettamente ad un racconto romantico.

Come è nato il progetto di No place like Rome?
L’idea è nata non molto tempo fa attraverso il desiderio di realizzare un film finalmente in Italia. Prima ho lavorato soltanto all’estero, negli Stati Uniti, che ormai sono diventati la mia seconda casa, ed in Olanda. Quindi ho scelto di rendere omaggio a un posto come Roma, che io amo molto, come ai luoghi in cui sono cresciuta da bambina: l’Umbria in generale e soprattutto la città di Terni. In particolare siamo stati nel paesino di Cesi, nell’antico villaggio romano di Carsulae e naturalmente nel centro cittadino ternano. Sono stata a questo proposito molto contenta di aver girato a Palazzo Contelori che una volta era il municipio ed è lì che gli attori sono stati ospitati.
Veniamo alla trama di questo film
Un fotografo americano, interpretato da Stephen Dorff, lavora per un giornale molto importante. La redazione gli ha chiesto di andare a Roma per realizzare un reportage dedicato al periodo natalizio. Suo figlio quattordicenne dovrebbe raggiungerlo per passare le feste insieme ma all’ultimo momento, il ragazzo decide di non andare. Rimasto solo decide di dedicarsi completamente al suo impegno, avvalendosi dell’aiuto di una ragazza conosciuta per caso al Museo Maxxi. Frequentandosi a poco a poco, nasce una storia d’amore.
La ragazza conosciuta per caso è Cristiana Capotondi, parlami di lei. Come è stato il vostro rapporto sul set?
Bellissimo! Lei è una persona meravigliosa, colta, educata, gentile, molto preparato. Era proprio l’attrice di cui avevo bisogno per interpretare il ruolo di una donna intelligente, piena di vita. Questa sua vivacità e questa sua esuberanza, vincono tutte le problematiche che il protagonista maschile aveva, non soltanto riguardo a lei ma anche all’amore in generale. Lei lo scuote fino al punto da fargli vivere una rinascita interiore. È stato divertente lavorare con lei ed uso lo stesso aggettivo guardando alla parte di Radha Mitchell. Una persona che in parole povere, svolge 3.000 lavori (la veggente, la scrittrice, la cameriera, la libraia la guida turistica, insomma una tuttofare).
Avendo lavorato per gli Stati Uniti, quali sono le differenze sostanziali tra cinema italiano ed americano?
Ormai negli Stati Uniti mi muovo con una certa facilità: conosco il modo di fare, conosco i parametri, conosco le troupe. Qui invece quando sono arrivata mi sono sentita come un pesce fuor d’acqua. Ero spaesata così come lo erano gli attori americani. Quando ho deciso di tornare credevo di essere accolta in un certo modo, non incontrando problemi. Al contrario mi sono invece immersa in un mondo differente con cui c’è ben poco in comune. Stiamo lavorando in circostanze abbastanza dure.
Circostanze difficili perché?
La troupe è piuttosto piccola, le persone sono molto diverse. In America c’è un certo rispetto, una certa disciplina e soprattutto c’è il fatto di poter girare per ore, ore e ore. Qui invece bisogna avere molta pazienza, facendo anche pause piuttosto lunghe. Talvolta dobbiamo ridurre il lavoro, non riuscendo a portare a casa ciò che avevamo previsto in partenza. Fortunatamente però, io sono quasi sempre riuscita a riprendere tutto ciò che avrei voluto, ad eccezione di un giorno in cui è piovuto tutto il tempo. Aggiungo poi che in America non c’è bisogno di tanti giri di parole per capire cosa fare. In Italia invece, c’è sempre bisogno di troppe spiegazioni. E un’ultima cosa molto importante da sottolineare è il poco coraggio che ho visto in Italia: lo spazio a disposizione per i giovani è quasi nullo. Anche nella mia stessa troupe sono rimasta sorpresa di vedere che la maggior parte delle persone presenti sia di mezza età, a differenza delle precedenti esperienze negli Stati Uniti e in Olanda.
E questi sono i difetti, ma in questo tempo trascorso in Italia, hai per caso trovato qualche pregio?
Certamente! In particolare qui, sappiamo sempre adattarci ad ogni circostanza possibile, trovando soluzioni in tempi brevi ai problemi. C’è sempre tanta voglia di voler collaborare, dare una mano e contribuire, anche con un piccolo impegno alla buona riuscita del prodotto finale. In America invece, pur conoscendo molto bene tante persone, vedo un ambiente piuttosto freddo e più rigido. Non soltanto nel cinema ma anche nei rapporti interpersonali.
Cosa vorresti comunicare con No Place like Rome?
Come dicevano alla scuola di cinema American Film Institute “se hai un messaggio manda un telegramma”. Il cinema non è dare un messaggio, piuttosto un’espressione di sentimenti. C’è chi riesce a relazionare con i personaggi e sentire determinate sensazioni, condividendole insieme a loro. Contrariamente alla letteratura che si appella all’intelletto, l’immagine si appella ai sentimenti.
Concordo in parte con questa affermazione. Nella mia attività, ho avuto modo di vedere e recensire film molto profondi.
Certo! I messaggi ci sono, ma almeno nel mio caso non mi sveglio la mattina pensando che la violenza sia una cosa inutile e la voglia di esprimerlo con una storia. Magari mi viene un’idea che però sotto, sotto nasconde questo messaggio. A me piace raccontare storie che si basano sulle relazioni umane. Racconto i problemi esistenziali, la solitudine, insomma tematiche che riguardano la condizione umana come quella dei protagonisti di No place like Rome. Lui è profondamente solo perché non ha un grande supporto familiare; mostra la sua paura più profonda, quella di gettarsi appieno nel vulcano dei sentimenti. Lei invece, grazie alla sua indipendenza, non desidera diventare possesso di un uomo. In queste condizioni non è quindi in grado di conoscere l’amore profondo.
Quale colonna sonora ha scelto?
Non ho ancora scelto. Ho pensato a della musica classica o allo stile di Midnight in Paris. Tuttavia ancora non è stata definita la cosa.
Secondo le aspettative, quando dovrebbe uscire il film in sala?
Non sappiamo ancora quando uscirà. Essendo un film che parla del Natale, io spero la produzione scelga proprio quel periodo lì.
Natale è sempre un periodo perfetto per queste cose anche se non si capisce il perché. Se dovessi un paragone, ci sono quei giochi da tavola o con le carte che secondo la tradizione si possono fare esclusivamente a Natale.
È vero! Probabilmente tutto questo aiuta a identificare il periodo con la gioia, la pace, la speranza. Purtroppo oggi non è più come prima per via del lavoro che ci travolge, ma anche perché al 90% sopravvivono solo i valori commerciali e non c’è più il suo profondo significato spirituale.
Prima di salutarci, permettimi di togliermi una curiosità: se avessi voluto girare un film già famoso nella storia del cinema, quale avresti voluto?
È una bella domanda… peccato non sia facile dare una risposta. Ce ne sono tanti però alla fine nessuno. Voglio essere me stessa. Di certo Ci sono tante storie che in un modo o nell’altro hanno influenzato la mia ispirazione ma… volutamente, dichiaratamente, non cerco mai nulla dagli altri.
Eugenio Bonardi