Esce oggi “Roubaix, une lumière”, oltre il noir nel profondo delle coscienze
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È la notte di Natale nella degradata periferia di Roubaix, la “Manchester francese”, città industriale e crocevia di etnie ai confini con il Belgio. Il commissario Daoud (Roschdy Zem, gigantesco non solo nella stazza) è originario proprio di là: questa per lui è una notte come tante altre, trascorsa in servizio, a pattugliare le strade della propria città. Al suo fianco, il giovane e poco esperto agente Louis Coterell, fresco d’accademia di polizia. I casi sono quelli di sempre: stupri, fughe da casa, incendi, effrazioni e… un omicidio. Quello di un’anziana, rinvenuta esanime nel letto della propria stanza. Presto il cerchio si stringe attorno a una coppia di ragazze che vive nell’abitazione adiacente assieme ai propri cani: Claude (un’algida e intensa Léa Seydoux) e Marie (una sorprendente Sara Forestier), madre di un bimbo che teme di non rivedere più. Donne allo sbando in un contesto al limite, dentro il quale Daoud si muove sornione e leggero, malinconica, tenace e autorevole presenza capace di agire sulle coscienze dei colpevoli, fino a far affiorare la verità dal magma in cui questa è sistematicamente invischiata, distorta e tradita.
Ispirandosi al documentario che Mosco Boucault realizzò quasi vent’anni fa per France 3, Desplechin si appoggia al genere per trascenderlo, va oltre il noir e indaga la coscienza, le miserie e le potenzialità dei propri personaggi. Una discesa negli inferi interiori così pervasiva che lo spettatore potrebbe mutuare le parole del regista: «Per la prima e unica volta nella mia vita ho solidarizzato con due criminali: ho voluto riconsiderare le parole crude delle vittime e delle colpevoli come la più pura delle poesie. […] L’ho considerato come un materiale sacro, cioè: un testo che non finiremo mai d’interpretare».
Una perlustrazione che si prende tutto il tempo necessario, se è vero che la sfaccettata e polifonica descrizione dell’ambiente attorno all’omicidio occupa quasi un’ora, ossia la prima metà esatta del film; la seconda comincia quando il cerchio s’è ormai irrimediabilmente stretto, ed è un botta e risposta progressivo, inesausto e sfiancante tra le presunte colpevoli e i poliziotti, e tra la prima e la seconda ragazza. La spettacolarizzazione e i cliché di genere sono agli antipodi rispetto alla strategia investigativa di Desplechin, che procede sicuro e attento al minimo dettaglio, senza sosta e senza fretta, come una goccia cinese che scava la roccia della menzogna e della paura. La lezione dostoevskiana è palpabile e perfettamente chiara, in primis al regista: «Mentre trascrivevo e mettevo insieme questo materiale pensavo sempre a Delitto e castigo. I tormenti di Raskolnikov sono gli stessi di queste diseredate. Sì, Pietà più di quanto si possa dire, è al centro dell’amore», perché tutti i personaggi sono al contempo «colpevoli e vittime», e non è un caso che il suo sguardo si concentri soprattutto sulle donne di quella periferia: «Attraverso la vita di questa stazione di polizia di Roubaix, abbiamo un ritratto, inevitabilmente incompleto, della condizione femminile di oggi».
Uno sguardo che coincide ovviamente con quello di Daoud, che il regista descrive così: «Straniero nella sua città, denigrato dalla sua famiglia, sa come identificarsi con tutti quelli che incontra. Condivide la loro umanità. Come potrebbe non comprenderli? […] Daoud è un occhio, è un orecchio. Vede il mondo e lo accetta».
Nel cinema di Desplechin si opera la coniugazione del documento (documentario) con la finzione, l’uno si sublima nell’altra: «Penso che la finzione si arricchisca con l’essere un possibile specchio della realtà».