Berlinale 2016. Intervista a Gianfranco Rosi. Omaggio alla generosità di Lampedusa
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L’intervista è a cura di Salvatore Marfella
Intervista al regista Leone d’Oro a Venezia, Gianfranco Rosi
Fuocoammare, co-produzione italo-francese, è la nuova fatica del grande documentarista italiano Gianfranco Rosi, già vincitore del Leone d’oro nel 2013 per Sacro GRA. Il film, che racconta il dramma dei migranti visto con gli occhi dei cittadini di Lampedusa, approda in Concorso al Festival di Berlino e riceve applausi convinti durante la proiezione stampa del mattino. Il regista è apparso visibilmente emozionato e soddisfatto del proprio lavoro durante l’incontro con i giornalisti. Ne abbiamo approfittato per porgli alcune domande su questa sua nuova esperienza umana ed artistica
Rosi, come nasce l’idea di un film così esplicitamente politico come Fuocoammare?
In realtà, inizialmente mi era stato chiesto, da parte dell’Istituto Luce, di girare un cortometraggio di dieci minuti. Ma, recatomi sul posto, mi sono subio reso conto che la materia esigeva un’opera di respiro più lungo. D’altronde, il lungometraggio è molto più nelle mie corde. I produttori mi hanno dato carta bianca e così ho iniziato ad aggirarmi per l’isola in compagnia di un giovane, Peppino, che mi ha fatto conoscere la realtà di Lampedusa, prendendomi praticamente per mano. Poi ho incontrato il dottor Pietro Bartòlo [il medico che si vede in alcune sequenze del film, ndr] e lui, sapendo che avevo in mente questo film, mi ha consegnato una chiavetta con alcune importanti immagini che testimoniavano l’orrore di cui tutti sappiamo. Ho iniziato le riprese nel dicembre del 2014 e l’ultimo ciak è stato circa un mese fa, giusto in tempo per presentare il film al Concorso. Sì, il film è esplicitamente politico, il resoconto di una tragedia che per me non si ripeteva dai tempi dell’Olocausto.
In questo senso, che ruolo possono avere secondo lei le immagini?
Io spero che possano servire a scuotere le coscienze e soprattutto a far muovere l’Europa che, come è sotto gli occhi di tutti, non sta affrontando adeguatamente il problema. Ho citato poco fa la Shoah con la differenza che, a differenza di quell’evento, le cui immagini ci sono arrivate molto dopo i fatti, questa volta esse sono diventate il nostro pane quotidiano. Purtroppo.
Che cosa ha imparato dal racconto degli abitanti di Lampedusa?
A Lampedusa ci sono persone eccezionali come il dottor Bartòlo che mi ha raccontato (e lo ripete nel film) tutte le terribili atrocità di cui è stato testimone: donne uccise o violentate, cadaveri di bambini anche piccolissimi che egli ha dovuto anche sezionare, sofferenze davvero indicibili. Ed è strano come possa suonare retorica la seguente semplice verità: l’Europa deve farsi carico di questa tragedia e non seguitare ad innalzare muri. Non è possibile al giorno d’oggi che delle persone muioano per percorrere un tratto di mare di sette-otto km., della durata di poche ore. Il 15 agosto, ad esempio, sono morte 150 persone e di questo fatto ho letto molto poco sui giornali.
Uno dei personaggi centrali del film è il piccolo Samuele Pucillo. Può dirmi come lo ha incontrato e scelto?
Innanzitutto, devo dire che avevo voglia di lavorare con un bambino in maniera ravvicinata, cosa che non era mai accaduta prima nella mia carriera. Quando l’ho visto stava giocando con la fionda e io lo guardavo. Poi quando mi ha detto: “Per colpire bene ci vuole la passione” non ho avuto dubbi.
Tra l’altro mi sembra che alcuni degli episodi in cui è protagonista assumono un valore quasi simbolico: ad esempio, nella scena del cactus quello che lui e l’amico fanno sembra quasi una metafora di ciò che è avvenuto in alcune situazioni, cioè prima si distrugge senza motivo e poi si tenta di mettere una pezza.
Esattamente, il punto è proprio questo. So che forse può sembrare un po’ didascalico ma anche nella scena dall’oculista il suo “occhio pigro” corrisponde al nostro sguardo miope o distratto.
Il film, oltre a raccontare una tragedia, sembra essere anche un omaggio alla generosità degli abitanti di Lampedusa…
Sì, i lampedusani non si stancano mai perché nella loro cultura c’è il mare, dal quale sono abituati a raccogliere ed accettare tutto ciò che questo porta loro. Voglio raccontarle un episodio bellissimo di cui è stato testimone il dottor Bortòlo: un giorno, in mezzo al mare di disperati, c’era una donna incinta, che era sul punto di partorire, tanto che le si erano da poco rotte le acque. Il dottore è riuscito a salvarla e a far nascere la bambina. Con sua grande sorpresa, sebbene fosse notte, fuori la corsia dell’ospedale c’era una cinquantina di donne che ha portato alla donna e al nascituro ogni ben di Dio. Eppure, nessuno le aveva informate ma è bastato qualcuno che era venuto a conoscenza del fatto perché la voce girasse e si scatenasse questa incredibile solidarietà.
A parte il tema, di grande attualità, il film mi ha personalemnte colpito anche per una grandissima cura dell’immagine, in particolare per l’uso della luce. Ha utilizzato qualche teelcamera particolare?
La cura dell’immagine è qualcosa cui tengo molto anche perché a me piace molto girare e sperimentare tecnicamente. Questa volta ho utilizzato una macchina molto piccola e di ultima generazione della Arriflex, che mi ha dato risultati sorprendenti soprattutto nelle riprese notturne, per effettuare le quali come fonte di illuminazione mi è bastata una semplice torcia. Anche da questo punto di vista, devo dire che sono molto soddisfatto del risultato.
C’è un personaggio del film che mi è sembrato un po’ irrisolto e la cui funzione, devo confessare, non ho compreso del tutto:mi riferisco al palombaro, il sommozzatore. Che cosa aveva in mente?
Ad essere sincero, quello del palombaro è un personaggio che doveva essere più presente ma poi le scene con lui si sono ridotte e, tutto sommato, così com’è, suona un po’ oscuro persino a me. Riflettendoci, ora mi sembra possa rappresentare colui che si cala nel profondo per non sentire i rumori e il dolore, per lasciarli in superficie. Visto così, forse assume una valenza abbastanza forte dientando l’immagine di quello che la maggior parte di noi corre il rischio di fare: rinchiudersi dentro il proprio mondo ovattato, per non vedere e non sentire.
Salvatore Marfella
Intervista pubblicata anche sulla rivista Milena.
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